Firenze è l'unica città d'Italia che non ha un Juventus club. C'è a Napoli, o nei dintorni, c'è a Roma e zone limitrofe, ma sotto il campanile di Giotto no. Tempo fa si è voluto aprire una sede di club bianconero a Prato, città notoriamente filojuventina. Le vetrine hanno resistito l'effimero spazio di un'alba e poi sono finite in frantumi.

Ci vorrebbe un sociologo raffinato per enucleare una teoria che rendesse giustizia alla genesi di una rivalità che a Torino non si sa neppure se esiste. Poiché sociologo non sono, mi limito a raggruppare alcune idee, senza la pretesa di avere la verità rivelata. Non sono onnisciente, come ad esempio quelli che predicono la misera fine di Allegri da anni, regolarmente smentiti. Provo a razionalizzare.

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Risale ai tempi dello scudetto del 1982, la rivalità tra una tifoseria da campanile (Giotto o non Giotto) e una squadra che di tifosi riempirebbe 20 Firenze e 5000 Uffizi. E' la solita storia di coloro che, abituati a languire nelle retrovie, si imbattono in un “annus mirabilis” e pretendono il diritto alla vittoria prima di conseguirla. Di fronte al fallimento dell'obbiettivo, i poveretti si contorcono dal mal di fegato fino a spargere fiele e costringere allo spargimento medesimo fino alla quinta generazione. D'altra parte, quando gli ricapita un'occasione più unica che rara? In Italia, che piaccia o meno, se si vuole vincere qualcosa nel calcio, si deve necessariamente fare i conti con la Juventus. Che in quell'anno non mollò e vinse sul filo di lana. Non dice niente il rigore a Catanzaro battuto da Brady, che sapeva di dover andare via da Torino? Ecco, fu quella volta lì.

Naturalmente la Juve rubò ed i Pontello (quelli che da lì a qualche anno avrebbero tradito la città di Machiavelli cedendo Baggio Roberto ai nemici a strisce) alimentarono la diceria, copiando Goebbels. “La calunnia è un venticello - si canta nel Barbiere di Siviglia -. Il meschino calunniato, avvilito, calpestato, sotto il pubblico flagello per gran sorte va a crepar”. Così secondo don Basilio, ma non secondo la Juve. Che da Firenze torna sovente con la vittoria in tasca e coi fiorentini scornati ed epatosofferenti.

Ma che razza di rivalità è mai questa? Artatamente costruita sulle follie verbali di tal Zeffirelli Franco, regista ed autore mirabile, pessimo figuro da cortile nel contempo, ignorante sesquipedale in fatto di pallone e costretto a mettere mano al portafogli, dopo la sentenza che lo costringeva a pagare in solido per le sciocchezze dette, per la soddisfazione di Boniperti e dell'istituto a cui andarono in beneficenza i soldi della querela. Non sarebbe male ogni tanto ricordare agli attuali dirigenti che la querela non sarà un venticello come la calunnia, ma educa assai di più. Ma questo è un discorso a parte.

Rivalità di trofei? Siamo seri, suvvia. Basta una parete stretta di un monolocale angusto, nella sede viola. Non c'è gara, non si incomincia nemmeno. A Firenze come all'Olimpico di Torino: con un senso di fastidio. Almeno coi granata si divide la città, ma con i “violacci” nemmeno il Granducato. I fiorentini si danno un tono, rivaleggiando con la Juve, un po' come quel tale che facendo a pugni con un energumeno più grande e grosso di lui esclamava: “Ne ho prese tante, ma quante gliene ho dette”. Della serie, anche quest'anno ci tocca pagare la tassa del Franchi, là dove si riuniscono tifosi che vivono solo per questa partita e poi che vada come vada. In altri termini la quintessenza del provincialismo italico, la negazione del progresso, del puntare a qualcosa di più. Tant'è che attorno al capoluogo toscano, i toscani “altri” tifano Juve, per opposizione e distinzione dai fiorentini “indigeni”. Le due società dialogano e si scambiano giocatori, ma la pancia dei discendenti dai Pazzi, quelli della congiura, borbotta e si contorce quando vede bianconero.

A noi, come disse nell'ultima battuta Rhett Butler (alias Clark Gable) in Via col vento, “nun ce ne po' fregà de meno”. La rivale vera si esibirà allo Stadium il 7 dicembre. Questi viola li lasciamo cuocere nel loro brodo.