Qualche giorno fa, tra i tifosi juventini, circolava una battuta: Bellingham alla Juventus giocherebbe nella Next Generation. In effetti, contiene una certa dose di verità. Non soltanto perché il giocatore inglese, nel 2020, era incerto tra la Juve (visitò Vinovo e la Continassa) e il Dortmund, ma soprattutto per la ragione che lo indusse a preferire i tedeschi.

L'offerta economica della Juventus è allettante, ma… c'è un ma: il “ragazzo” non andrebbe a giocare subito in prima squadra, bensì nell'allora Under 23, poi, piano, piano... Il Dortmund invece garantisce immediatamente l'inserimento nella prima squadra. D'altra parte lo fa anche con Haaland, Sancho, Dembele.
E' proprio questo “piano, piano” che rende la Juventus e, in parte, il calcio italiano eccessivamente paternalistici. La squadra torinese è stata imprudente nei “parametri zero”, ottenuti con contratti di lunga durata e stipendi faraonici, ma non lungimirante: o non sa individuare i talenti o nutre un'eccessiva diffidenza verso i cosiddetti “giovani”.

Juve, McKennie e il suggerimento ad Allegri: 'Spero possa ripetersi...'
Forse entrambe le cose: la vecchia prudenza sabauda (ai limiti della rigidità) si è sposata al realismo paternalista di Allegri. E così si danno 10 minuti ogni 5 partite a Illing Junior, si manda Soulé (c'era la tentazione di venderlo) a farsi le ossa perché in prima squadra non può giocare, ma appena gli danno qualche partita risulta tra i migliori giocatori del campionato. Dragusin, nei giudizi degli opinionisti, è uno protagonista del bel Genoa di Gilardino. Si potrebbe continuare, l'elenco è lungo.

A questo eccessivo paternalismo, che caratterizza società e allenatore, si può anche aggiungere una certa testardaggine labronica del “mister” bianconero ben manifestata dal caso Arthur. Bisognava che cambiasse squadra (sulla carta inferiore alla Juve) e allenatore per diventare un buon giocatore? Il campo ha dato la risposta. Un campo che non è quello dell'Allianz.