Ecco, nel Duomo di Vicenza si sono riuniti e stretti quei giganti. Coloro i quali sono stati calciatori e campioni per dovere professionale e per vocazione, ma che lungo il loro percorso segnato dalla cifra della celebrità non hanno mai smesso neppure per un attimo di essere e di proporsi come uomini. Ciascuno di loro come ognuno di noi. Paolo Rossi in prima fila. Erano, ieri, e saranno, per sempre, quelli che sono stati amati senza riserve e oltre ad ogni appartenenza di bandiera perciò che hanno costruito a favore del calcio umano. Il gioco della gioia, della spensieratezza, dell’onestà, del senso del dovere, dell’etica agonistica e cavalleresca.
La commozione suggerita dall’ascolto dei saluti pubblici fatti dai suoi compagni con voce rotta e in arrivo direttamente dai loro cuori. Potente, addirittura, il discorso di Cabrini. Scolpita nella pietra la riflessione di Zoff. Assordante il silenzio mantenuto da Tardelli. Non colleghi di lavoro, ma amici e fratelli. Esattamente come, per anni, si sono mostrati al pubblico degli stadi che, dopo di loro, mai più ha potuto conoscere il vero valore di un calcio nel quale ai giganti hanno fatto seguito i nani, sotto ogni profilo. Il surrogato di quel miracolo non più ripetibile. Per questo, oggi, non accenderò la televisione e di come finiranno le partite non mi importerà un bel nulla.