La carriera di un giocatore è composta da tanti momenti tutti diversi tra loro. Negli album dei ricordi spiccano, giustamente, quelli topici, me ne tornano in mente un’infinità meravigliosi, ma io ricordo benissimo cosa ci sia dietro ognuno di essi. Ricordo la gioia e i sorrisi, ma ricordo anche i periodi più difficili.
Ricordo le paure.
Paure e debolezze, spesso, vengono quasi nascoste, mascherate, ma fanno parte del nostro cammino e, per vincere, bisogna attraversarle. Superarle.
Ogni percorso ha la sua storia, ogni giocatore percorre una strada diversa, ma se devo individuare alcune paure che, più o meno, vivono tutti ne sceglierei tre: la paura della sconfitta, la paura degli infortuni e l’ultima, la paura di smettere e scrivere la parola fine. Ripeto, ognuno le affronta a suo modo, ognuno ha il suo cammino. Io vi racconto il mio.
I RISULTATI
La paura più comune è quella con cui tutti abbiamo dovuto fare i conti, quella che ti attanaglia quando i risultati non arrivano. Ricordo, in particolare, gli anni dei settimi posti. Ci guardavamo negli occhi ed eravamo tutti grandi giocatori, chi membro della propria Nazionale, chi campione del mondo. C’erano grandi talenti, eppure...
Ti ritrovavi, così, a chiederti quando ne saresti uscito fuori e cosa potessi fare tu come singolo per aiutare il gruppo a ritrovarsi. Queste situazioni vanno affrontate con calma, a volte basta una scintilla, anche una partita magari vinta giocando male, ma dove hai tirato fuori lo spirito di squadra può permettere di iniziare a mettere qualche mattoncino su cui costruire la ripresa. Da queste paure superate possono, poi, nascere i gruppi vincenti.
Dopo due stagioni difficili, nell’anno del primo dei nove scudetti di fila, la svolta per noi credo sia arrivata in Juve-Milan. Eravamo partiti bene quell’anno, ma anche le stagioni precedenti ci eravamo resi protagonisti di una buona partenza e poi le cose non erano finite bene. Giocavamo contro i campioni d’Italia e abbiamo vinto quella partita, lanciando un segnale enorme. A dare quel segnale non fu solo la vittoria, ma il modo in cui eravamo riusciti ad ottenerla, conquistandola sul campo con un dominio importante sotto l’aspetto del gioco e dell’intensità, creando tanto e subendo pochissimo. Poi non era arrivata con eurogol o giocate incredibili, ma grazie alla determinazione e alla voglia di portare dalla propria parte anche la fortuna che tante volte era mancata. Quella vittoria, ottenuta con quello spirito, ci ha dato la convinzione per dire “quest’anno ci siamo”, e quella convinzione ha fatto la differenza quando, nel finale, abbiamo attraversato un periodo meno brillante. Nel gruppo quelle certezze non sono mai sparite e ci hanno permesso di andarci a prendere quel campionato.
GLI INFORTUNI
Sei solo. Tu su un lettino mentre, intorno a te, quello che è il tuo mondo va alla sua folle velocità tra allenamenti e partite. Lo spogliatoio va a un altro ritmo, mentre tu devi rallentare per ritrovarti. Nella quotidianità sei abituato ad affidarti ai compagni, allo spogliatoio, ma all’improvviso ti rendi conto di dover combattere da solo. Queste sono le prime sensazioni che ti fanno compagnia quando ti ritrovi ad affrontare un lungo infortunio.
Gli infortuni fanno parte della carriera di un giocatore, capitano, ma questo non li rende più facili da affrontare. In quei momenti penso che a darti la forza possa essere la famiglia. C’è quasi un ricongiungimento naturale, loro ti aiutano, possono andare alla tua velocità. Le persone care sono quelle che in questi momenti ti permettono di assorbire ogni paura.
IL RITIRO
Sapete qual è, però, la paura più grandi di un calciatore? Smettere di essere un calciatore. Il ritiro è un momento estremamente complesso da gestire. C’è il rischio del crollo emotivo, sai che l’adrenalina che ti fa vivere il calcio non la vivrai mai più, a prescindere da quello che farai dopo.
Allenamenti, partite ogni tre giorni, competizioni diverse, sfide, tifosi, le emozioni che si mischiano in un match, la pressione, la gioia, la paura, tutto all’improvviso sparisce. Quelle scariche di adrenalina che hai avuto l’onore di poter respirare nella tua quotidianità non ci saranno più. Questa, a prescindere da quanto tu abbia programmato il tuo futuro, è senz’altro la cosa più difficile da affrontare. Sai di non poter andare più al ritmo cui eri abituato, razionalmente ne sei consapevole, e anche nel momento in cui inizi a giocare sai che quel momento arriverà, ma quando ti ritrovi a gestirlo è un’altra cosa.
Io sapevo che il calcio sarebbe rimasto nella mia vita, come ho detto, in fondo, mi ero già preparato. C’è una cosa, che, però, mi ha stupito: non mi aspettavo di essere ancora così tanto tifoso. Io nasco da una famiglia juventina, quindi la mia passione per la Juventus era viva a prescindere dal mio percorso. Quando diventi un calciatore professionista, anche se giochi nella tua squadra del cuore, ovviamente vivi le cose in maniera diversa. Sei sempre tifoso, ma sei, soprattutto, appunto, un professionista; quindi, ragioni in un altro modo. Adesso, al di là di quando vesto i panni dell’opinionista o del commentatore, dove cerco sempre di mantenere l’equilibrio, mi ritrovo a stare davvero male quando la Juve perde, tanto quanto sono euforico quando vince. Da calciatore, ovviamente, quando perdevi stavi male, ma la reazione era diversa, dovevi concentrarti sulla prossima partita, capire l’errore, lavorare per non commetterlo. Ora, invece, ho ripreso a viverla davvero da tifoso. Non pensavo il tifo sarebbe esploso di nuovo così. È bellissimo'.